Pakistan. La legge di blasfemia diventa “business”: accuse organizzate a scopo di estorsione

Feb 1, 2025 - 00:18
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Pakistan. La legge di blasfemia diventa “business”: accuse organizzate a scopo di estorsione

C’è un gruppo criminale che gestisce un racket per incastrare persone innocenti con false accuse di blasfemia. L’organizzazione usa la legge di blasfemia come trappola e come un business, a scopo di ricatto ed estorsione e ha già colpito 450 vittime innocenti. E’ quanto denunciano avvocati cristiani e musulmani in Pakistan che, da alcuni mesi, avevano notato il proliferare di casi simili l’uno all’altro: giovani, di qualsiasi religione, venivano incastrati con false lusinghe per poi essere accusati di blasfemia online, con conseguente arresto, carcere e accusa formalizzata di blasfemia, che in Pakistan può significare anche l’ergastolo o la pena di morte. Come riferisce all’Agenzia Fides l’avvocato cattolico e parlamentare Khalil Tahir Sandhu, le famiglie delle persone falsamente accusate di blasfemia, insieme ai loro rappresentanti legali, hanno tenuto di recente una conferenza pubblica per svelare il perverso meccanismo, per lanciare l’allarme e chiedere uno specifico intervento delle autorità di polizia e della magistratura. Questa truffa ha devastato numerose famiglie che chiedono al governo e alle istituzioni giudiziarie di rendere giustizia a quanti sono stati ingiustamente incarcerati. La vicenda ha ricevuto la conferma ufficiale della National Commission for Human Rights (NCHR) che ha condotto un’indagine indipendente, descrivendo le attività di un’organizzazione che sfrutta a suo vantaggio, in modo criminoso, la blasfemia, intrappolando innocenti a scopo di estorsione. Il rapporto della NCHR evidenzia che la maggior parte delle vittime appartiene a famiglie di basso o reddito o di classe media. Secondo le informazioni contenute, oltre 450 persone sono state vittime di queste accuse, del tutto fabbricate. Oltre 150 individui sono imprigionati nella prigione di Adiala, 170 nella prigione di Lahore e nella prigione di Kot Lakhpat e 55 sono nella prigione centrale di Karachi. La modalità operativa è questa: i giovani vengono attratti da sedicenti ragazze tramite Facebook e altre piattaforme di social media. In seguito vengono invitati a passare ai gruppi WhatsApp per conversazioni personali. Iniziano a chattare e le ragazze offrono loro regali e si guadagnano la loro fiducia. In seguito la ragazza virtuale invia un messaggio con immagini o scritte blasfeme. La vittima, ignara, chiede spiegazioni. A quel punto la ragazza – fingendo di non sapere di cosa si parli – chiede le venga reinviato quel messaggio. Un volta ricevuto il messaggio di risposta, la “adescatrice” blocca immediatamente la vittima, e la intrappola accusandola di aver condiviso contenuti blasfemi online. La vicenda ha delle aggravanti come l’avvenuto decesso di alcuni giovani accusati mentre erano in custodia: tre ragazzi sono morti nella prigione di Adiala, una ragazza ha perso la vita nel carcere di Kot Lakhpat. Inoltre vi sono avvocati compiacenti che, in tribunale, difendono i querelanti e fanno pressione sui giudici.

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Giò Barbera Giornalista iscritto all’elenco dei “Professionisti” dal 2003. Iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Liguria dal 1991 come pubblicista fino al 2003 quando ha superato l’esame a Roma per passare ai professionisti. Il suo primo pezzo, da album dei ricordi, l’aveva scritto sul ‘Corriere Mercantile’ (con l’edizione La Gazzetta del Lunedì) nel novembre del 1988. Fondato nel 1824, fu una delle più longeve testate italiane essendo rimasto in attività fino al luglio del 2015. Ha collaborato per 16 anni con l’agenzia Ansa, ma anche con Agi, Adnkronos, è stato corrispondente della Voce della Russia di Radio Mosca, quindi ha lavorato con La Repubblica, La Padania, Il Giornale, Il Secolo XIX, La Prealpina, La Stampa e per diverse emittenti radiofoniche come Radio Riviera 3, Radio Liguria International, Radio Babboleo, Lattemiele, Onda Ligure. E' direttore del portale areamediapress.com e di Radiocom.tv