Flotilla e aiuti umanitari: cosa dicono i trattati e le convenzioni
Il caso della Global Sumud Flotilla riporta con forza al centro dell’attenzione la questione del blocco navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza e della sua compatibilità con il diritto internazionale. La partenza delle imbarcazioni cariche di aiuti umanitari ha riaperto un dibattito che da anni si colloca a metà strada tra politica, diritto pattizio e diritto consuetudinario. Per comprendere le implicazioni del caso occorre partire dalle fonti normative che disciplinano i conflitti armati e, nello specifico, il diritto del mare in tempo di guerra. Il riferimento principale resta la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, sottoscritta e ratificata sia da Israele che dall’Autorità nazionale palestinese, che all’articolo 33 stabilisce che “nessuna persona protetta potrà essere punita per un’infrazione che non abbia personalmente commesso” e vieta punizioni collettive, misura che gli esperti ritengono rilevante per valutare le restrizioni generalizzate alla popolazione civile di Gaza. Ad essa si aggiunge il Protocollo addizionale I del 1977, ratificato dalla Palestina ma non da Israele, il quale all’articolo 70 prevede che “le azioni di soccorso, destinate alla popolazione civile, saranno intraprese quando la popolazione civile non è sufficientemente rifornita degli approvvigionamenti essenziali alla sua sopravvivenza”. Questo articolo viene spesso citato da chi contesta la legittimità di un blocco che limiti il passaggio di beni essenziali come cibo e medicinali.
In assenza di un trattato vincolante che disciplini in modo esaustivo i blocchi navali, un ruolo centrale è stato assunto dal Manuale di Sanremo sul diritto internazionale applicabile ai conflitti armati in mare del 1994. Pur non avendo forza di trattato, esso rappresenta la sintesi più autorevole delle pratiche e interpretazioni condivise. Il documento stabilisce che un blocco “non deve avere come scopo quello di affamare la popolazione civile o negarle altri beni essenziali alla sua sopravvivenza” (paragrafo 102) e che “deve essere limitato agli obiettivi militari” (paragrafo 93). Israele sostiene che il blocco mira a impedire il traffico di armi verso Hamas, ma secondo molte organizzazioni internazionali la misura, così come applicata, produce effetti sproporzionati sulla popolazione civile, riducendo drasticamente l’accesso a beni primari.
Il quadro giuridico è ulteriormente complicato dagli Accordi di Oslo, firmati tra il 1993 e il 1995 da Israele e Organizzazione per la liberazione della Palestina, le intese che avviarono l’autogoverno palestinese in Cisgiordania e Gaza rinviando lo status finale a futuri negoziati. L’Annesso I dell’Accordo ad interim del 1995 (Oslo II), intitolato “Security along the Coastline to the Sea of Gaza”, suddivide il mare antistante la Striscia in tre zone. Le zone K e M, rispettivamente a nord e sud, si estendono fino a 20 miglia nautiche ma sono “chiuse per ragioni di sicurezza” e sotto controllo della Marina israeliana. La zona centrale, denominata L, è aperta ai palestinesi per attività di pesca e per la presenza di una forza di sicurezza locale, ma senza che venga mai riconosciuta una piena sovranità marittima.
In altre parole, Oslo ha consentito un utilizzo limitato del mare da parte palestinese, senza configurare vere e proprie “acque territoriali palestinesi”. Questo significa che Israele, pur non avendo una base giuridica per rivendicare piena sovranità su quelle acque, mantiene un controllo de facto sulla sicurezza e sul traffico marittimo. Ne deriva quello che molti giuristi definiscono un “Comma 22”: l’Autorità palestinese non dispone degli strumenti giuridici propri di uno Stato per rivendicare l’accesso libero al mare, ma allo stesso tempo Israele esercita un potere che eccede i limiti del controllo militare temporaneo, senza che vi sia un quadro condiviso capace di regolare la materia.
Il dibattito internazionale resta dunque sospeso tra due principi contrapposti. Da un lato, il diritto consuetudinario e pattizio che consente a uno Stato in conflitto di adottare misure di interdizione navale purché siano proporzionate, dichiarate e non discriminatorie. Dall’altro, le norme umanitarie che vietano l’affamare la popolazione civile e impongono il libero passaggio degli aiuti indispensabili. La Flotilla diventa il simbolo di questo paradosso giuridico: un’iniziativa civile che, nel tentativo di rompere un blocco considerato illegittimo da numerose risoluzioni e rapporti indipendenti, si scontra con un dispositivo militare che trova giustificazione in accordi firmati trent’anni fa ma mai superati. In assenza di uno Stato palestinese con confini e acque propriamente definiti, la questione rimane aperta: gli Accordi di Oslo restano formalmente in vigore, ma sul terreno Israele mantiene un controllo esteso, mentre l’Autorità nazionale palestinese non dispone ancora di strumenti giuridici paragonabili a quelli di uno Stato pienamente sovrano.
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