Il mondo economico è sempre più esposto alle mafie
L’impressione, più forte che mai, è che oggi il mondo economico è sempre più esposto alle mafie, quello più disponibile a dare “ospitalità”, come quello politico. Da diversi anni, ormai, è calato il numero dei reati di sangue collegati alla criminalità mafiosa ma è aumentata al contrario l’incidenza economica delle mafie che si servono soprattutto della corruzione negli “affari” diventata un sistema diffuso di relazioni nel mondo economico moderno. Un mondo in confusione se pensiamo soltanto alla decisione del 2014 dell’Unione Europea di inserire nel calcolo del Pil dei paesi membri alcune attività illegali, in particolare quelle collegate al traffico di droghe, alla prostituzione e al contrabbando di sigarette. Queste tre attività, ha sostenuto Eurostat, l’Istituto statistico europeo, sono illegali ma essendo attività economiche che si basano su transazioni consensuali, in cui, cioè, domanda e offerta si incontrano senza costrizioni, debbono ritenersi componenti del “benessere europeo” (sono escluse, dunque, le attività legate alla violenza o senza accordo tra le parti, per esempio i furti). L’inclusione delle attività illegali sopra indicate è una opportunità, presa al volo, che l’Unione Europea ha concesso agli istituti di statistica dei Paesi UE. Una sorta di riconoscimento del peso delle mafie nell’economia (non solo italiana) come ha ben sottolineato la Commissione parlamentare antimafia nella sua relazione conclusiva di fine Legislatura (relatrice On. Rosy Bindi), approvata all’unanimità, del 7 febbraio 2018, aggiungendo “è come se l’Europa si fosse resa conto che nelle dimensione imprenditoriale non esiste un confine sicuro, certo e invalicabile, tra attività legali e quelle illegali”. Una degenerazione di politica ed economia avvilente che avrebbe consentito, nel 2014, una crescita del Pil italiano di circa un punto percentuale ossia 15,5 miliardi di euro in buona parte attribuiti al traffico di droghe. Una valutazione di gran lunga inferiore rispetto all’autorevole contributo informativo fatto dalla Banca d’Italia nel 2012 che aveva attributo all’economia criminale nel periodo 2005-2008 un valore pari al 10,9% del Pil salito nel 2008 al 12,6%. Particolarmente severo il giudizio della Commissione Parlamentare suindicata che nella relazione sottolineava che “sul piano statistico è come se il nostro Paese ammettesse, suo malgrado, che anche una parte dell’economia mafiosa è “buona” e, come tale, può contribuire alla ricchezza nazionale”, per concludere che “la mafia, dunque, sarebbe una componente della ricchezza nazionale”, interpretazione nettamente rifiutata dalla stessa Commissione. Il fatturato dell’attività criminale, in realtà, sottraendo una pari quantità di risorse all’attività legale, contribuisce a creare un impoverimento dell’economia del Paese senza contare l’impatto negativo, in termini di competitività del nostro Paese, a livello internazionale. Insomma, l’impatto delle mafie sull’economia è sempre negativo e per questo la Commissione auspicava nella legislatura che stava per iniziare “…una profonda riflessione da parte della politica affinché il nostro Paese non ceda ulteriormente alla suggestione di un ricalcolo del Pil, apparentemente più favorevole sul solo piano dei conti nazionali, che possa apparire come una forma di “legalizzazione” statistica di quei proventi mafiosi che, contrario, quotidianamente magistratura e le forze dell’ordine sottraggono ai poteri criminali come fattori di inquinamento dell’economia”. Auspicio, come è capitato molto spesso, rimasto inascoltato.
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