Ad un anno esatto dallo scoppio del conflitto, in Sudan le prospettive di pace rimangono molto lontane

Apr 16, 2024 - 07:26
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Ad un anno esatto dallo scoppio del conflitto, in Sudan le prospettive di pace rimangono molto lontane

Ad un anno esatto dallo scoppio del conflitto, in Sudan le prospettive di pace rimangono molto lontane a fronte di un drammatico bilancio umanitario. Dall’inizio dei combattimenti a Khartum, il 15 aprile del 2023, la guerra che vede opporsi il capo delle Forze armate sudanesi (Saf) Abdel Fattah al Burhan e il suo ex alleato Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagalo – a capo delle milizie delle Forze di supporto rapido (Rsf) – si è progressivamente allargata, inglobando altri Stati e spingendo all’intervento anche i gruppi armati del Darfur. In dodici mesi di scontri il conflitto ha provocato almeno 16 mila morti, quasi 9 milioni di sfollati ed una crisi umanitaria che coinvolge oggi più della metà degli abitanti del Paese: secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 25 milioni di persone necessitano di assistenza, 18 dei quali soffrono di grave insicurezza alimentare. Una piaga che si è riversata anche su altri Paesi della regione, con circa 1,8 milioni di persone fuggite in Egitto, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, in aggiunta ai 6,7 milioni di sfollati interni. A pagare il prezzo più alto sono ancora una volta i civili: secondo il progetto di monitoraggio dei conflitti Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), sono civili oltre 14.700 su 16 mila vittime del conflitto, elemento che insieme al numero di sfollati e all’emergenza alimentare ha spinto alcuni a bollare quella in corso in Sudan come la peggiore crisi umanitaria al mondo. Dopo una prima fase della guerra a Khartum e nella vicina Omdurman, con attacchi edificio dopo edificio da parte delle due fazioni rivali e ondate di bombardamenti contro le Rsf da parte dell’esercito, il conflitto si è allargato verso altri Stati. Si combatte da tempo nel Darfur, nel Kordofan e nel Gadaref, Stato orientale che confina con quello di Gezira, oggi sotto il controllo delle Rsf. La scorsa settimana droni militari hanno preso di mira il quartier generale delle Forze armate sudanesi (Saf) e la base militare ad Al Fao, città situata circa 300 chilometri a sud-est di Khartum, nello Stato di Gadaref. Come confermato ad “Agenzia Nova” da un residente locale, uno dei due droni ha colpito la base militare, mentre le Saf hanno abbattuto il secondo dopo aver chiuso il mercato ed aver schierato l’esercito in città. L’episodio ha sollevato interrogativi sulla provenienza dei droni, riconosciuti come di fabbricazione iraniana e il cui impiego da parte delle Saf è stato indirettamente confermato ad “Agenzia Nova” dal generale Muhammad Bashir Suleiman, vice capo di Stato maggiore ed ex portavoce ufficiale delle Saf. Le Forze armate sudanesi (Saf) “hanno il diritto di ricevere assistenza ed equipaggiamenti militari da qualsiasi Paese straniero”, ha dichiarato il generale, ammettendo così la presunta fornitura di droni armati di fabbricazione iraniana alle forze armate sudanesi. La questione è collegata al tema degli armamenti ed in particolare all’implicazione di attori stranieri nel conflitto, con l’acclarato invio di forniture ed attrezzature militari dai mercenari russi ex Wagner e dagli Emirati Arabi Uniti, con la complicità del comandante dell’Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar. La situazione più preoccupante rimane ad ogni modo quella nel Darfur, martoriata regione da anni teatro di una irrisolta guerra civile e che vede ormai coinvolti – contro le Rsf – anche ex gruppi ribelli firmatari dell’accordo di pace di Giuba, riuniti in una piattaforma comune. Nel fine settimana le Rsf hanno preso il controllo del quartier generale delle forze ribelli congiunte a Mellit, nello Stato del Darfur settentrionale, costringendo i gruppi armati al ritiro dalla zona di al Fasher. Aspri combattimenti sono scoppiati lo scorso 6 aprile dopo che le milizie di Dagalo hanno iniziato ad attaccare, con il sostegno delle milizie arabe, numerosi villaggi ad al Fasher, abitati in prevalenza da persone appartenenti al gruppo etnico zaghawa. A questo gruppo, che insieme ai fur e ai masalit riunisce la principale comunità del Darfur, appartiene anche lo storico leader del Movimento di liberazione del Sudan (Slm-Mm), Minni Minnawi, il quale dopo un’iniziale fase di neutralità nel conflitto ha fatto ritorno nel Darfur e ha organizzato la resistenza dei ribelli contro le Rsf. Dall’inizio del mese, testimoni oculari hanno confermato a “Sudan Tribune” attacchi contro oltre 16 villaggi, tra cui Sarafaya, Um Ashoosh e Tarkina, diversi dei quali sono stati rasi al suolo con migliaia di persone fuggite a Shagra, Golo e nel campo sovraffollato di Zamzam. Secondo i primi dati ufficiali forniti dal ministero della Sanità del Darfur settentrionale, in seguito agli scontri sono state costrette a sfollare da al Fasher tra le 5 mila e le 7 mila persone. Almeno sette persone sono state uccise, otto ferite ed altre due persone risultano scomparse, ma il bilancio rischia di aumentare. Sul fronte politico, la crisi non appare al momento facilmente appianabile. Non ha per ora sortito effetti significativi neppure l’impegno dell’ex premier civile Abdalla Hamdok, deposto nel 2021 da un’azione di forza guidata dagli attuali contendenti del conflitto, Al Burhan e Dagalo, all’epoca rispettivamente capo e numero due del Consiglio sovrano sudanese. L’organo di transizione era stato istituito nel 2019 dopo la deposizione di Omar al Bashir, al potere per oltre 30 anni, al culmine di settimane di proteste che avevano visto scendere in strada a Khartum migliaia di persone, oppositori ed attivisti della società civile. Di quello slancio è rimasto oggi ben poco: la rete delle forze democratiche della società civile che fa capo a Hamdok ha guidato una delegazione in Egitto – dove ha incontrato anche il presidente Abdel Fattah al Sisi – per discutere degli sforzi volti a fermare la guerra in Sudan, ma non sembra aver ottenuto l’ascolto auspicato. A marzo, infatti, l’ex premier aveva dato per “probabile” un potenziale incontro tra al Burhan e Dagalo al Cairo, ma nelle settimane seguenti nulla è stato concretizzato. Sul conflitto si era espresso nello stesso periodo anche il segretario generale della Lega degli Stati arabi, Ahmed Aboul Gheit, il quale aveva ribadito che “priorità” della Lega è di fermare la guerra e preservare l’integrità territoriale dello Stato sudanese. Gheit aveva ricevuto l’ex premier Hamdok presso la sede del blocco regionale al Cairo, confermando la disponibilità della Lega araba a fornire “qualsiasi assistenza necessaria alle parti sudanesi per risolvere la crisi”. In occasione del primo anniversario del conflitto, oggi il leader delle Rsf Dagalo si è detto disponibile ad un cessate il fuoco in Sudan, come però ha già fatto in passato senza tuttavia che i combattimenti si interrompessero. In dichiarazioni pubblicate sui social media, Dagalo ha detto di essere pronto ad avviare un dialogo globale che conduca ad una soluzione politica e alla formazione di un governo civile, accusando la leadership delle Saf e “gli elementi dell’ex regime” del presidente Omar al Bashir di aver fatto scoppiare la guerra attaccando le sue milizie a sud di Khartum. Dagalo ha ribadito la sua convinzione di un necessario sistema federale come soluzione per governare il Sudan, affermando il bisogno di risolvere il conflitto alla radice. Il leader delle Rsf ha infine chiesto di formare un nuovo esercito per il Sudan unendo le diverse fazioni esistenti, e ha citato l’urgenza di tutelare il sistema democratico con un ritorno ad un’autorità civile. E’ nel quadro di questa prolungata impasse che si tiene oggi a Parigi la conferenza internazionale umanitaria, evento co-presieduto da Francia e Germania con l’obiettivo di organizzare una risposta alla crisi umanitaria provocata dal conflitto. I sudanesi sono minacciati “dall’oblio internazionale” di un conflitto “dalle dimensioni apocalittiche”, ha detto il ministro degli Esteri francese Stephane Sejourné aprendo i lavori dell’incontro, che ha l’obiettivo “importante” di “rimettere nell’agenda internazionale questa crisi oggi dimenticata”, ha detto Sejourné. “Agire per il Sudan significa prima di tutto esigere che tutte le voci, tutte le armi tacciano”, ha aggiunto, chiedendo l’apertura di corridoi umanitari, “compresi quelli con il Ciad e quelli con il Sudan del Sud”. Un appello alla comunità internazionale è arrivato anche dall’Alto rappresentante europeo per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per il quale “solo la pressione internazionale può fare in modo che in Sudan ci sia una cessazione delle ostilità”. Dello stesso avviso il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, che ha chiesto di garantire l’accesso agli aiuti (anche sanitari), corridoi umanitari e di raccogliere fondi per promuovere la ricostruzione. Per l’Italia è intervenuto il sottosegretario agli Affari esteri Giorgio Silli, il quale ha espresso “profonda solidarietà” alla popolazione sudanese, condannando le crescenti violenze su base etnica e le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario a danno della popolazione civile da parte di entrambe le parti in conflitto. Silli ha quindi espresso grande apprensione per le conseguenze interne e regionali della crisi sudanese che, con oltre sei milioni di sfollati e un milione e mezzo di rifugiati nei Paesi vicini, rappresenta ormai la maggiore crisi umanitaria per numero di persone sfollate al mondo. “L’Italia rinnova l’appello a tutti gli attori coinvolti nel conflitto sudanese a porre immediatamente fine agli scontri armati, a proteggere i civili e ad astenersi dagli attacchi alle infrastrutture civili” ha dichiarato Silli, sottolineando come sia urgentemente necessaria una soluzione negoziata. “L’Italia sostiene e incoraggia ogni sforzo di mediazione – da parte dell’Onu, dell’Unione africana e degli altri attori internazionali e regionali – per giungere alla cessazione delle ostilità e alla ripresa di un dialogo politico inclusivo in vista del ripristino delle istituzioni civili in Sudan”, ha concluso il sottosegretario.

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Giò Barbera Giornalista iscritto all’elenco dei “Professionisti” dal 2003. Iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Liguria dal 1991 come pubblicista fino al 2003 quando ha superato l’esame a Roma per passare ai professionisti. Il suo primo pezzo, da album dei ricordi, l’aveva scritto sul ‘Corriere Mercantile’ (con l’edizione La Gazzetta del Lunedì) nel novembre del 1988. Fondato nel 1824, fu una delle più longeve testate italiane essendo rimasto in attività fino al luglio del 2015. Ha collaborato per 16 anni con l’agenzia Ansa, ma anche con Agi, Adnkronos, è stato corrispondente della Voce della Russia di Radio Mosca, quindi ha lavorato con La Repubblica, La Padania, Il Giornale, Il Secolo XIX, La Prealpina, La Stampa e per diverse emittenti radiofoniche come Radio Riviera 3, Radio Liguria International, Radio Babboleo, Lattemiele, Onda Ligure. E' direttore del portale areamediapress.com e di Radiocom.tv