In altri paesi europei le “leggi bavaglio” sono molto più severe
Lunedì 9 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo che parte dell’opposizione e le associazioni dei giornalisti hanno definito “legge bavaglio”, perché vieta la diffusione di alcuni atti giudiziari sui giornali e secondo loro in questo modo limiterebbe la libertà di stampa (da qui il “bavaglio”). La legge prevede che i giornalisti e le giornaliste non possano più pubblicare «le ordinanze che applicano misure cautelari personali fino a che non siano concluse le indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare». Secondo Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi (la federazione nazionale della stampa italiana), l’obiettivo del governo è «affamare i giornalisti» e indebolire l’informazione, mentre alcuni eurodeputati del PD hanno presentato un’interrogazione alla Commissione europea parlando della «legge bavaglio più opprimente di sempre». Molti appelli contro la nuova legge descrivono l’Italia come un paese europeo in cui la libertà di stampa è a rischio, ma in realtà la nuova legge è meno severa rispetto a quelle in vigore da anni nella maggior parte dei paesi europei, dove la presunzione di innocenza è considerata un principio essenziale della cronaca giudiziaria ed è sottoposta a molte regole. La cosiddetta legge bavaglio è nata da una proposta del deputato Enrico Costa, lo scorso settembre passato da Azione a Forza Italia, da sempre sostenitore di regole che hanno l’obiettivo di tutelare la libertà delle persone nei confronti del potere giudiziario, quello che viene chiamato garantismo. Il divieto riguarda l’ordinanza di custodia cautelare, un provvedimento che ha a che fare con le indagini preliminari, cioè la prima fase di un’inchiesta giudiziaria. Anche se una persona non è ancora sotto processo (non è stata “rinviata a giudizio”, nel gergo giudiziario), il giudice per le indagini preliminari può accettare – su richiesta del pubblico ministero – di limitarne comunque la libertà con un’ordinanza di custodia cautelare. Questa misura viene disposta se il giudice ritiene che la persona accusata possa scappare, compromettere le prove (“inquinare”) o commettere lo stesso reato. Tra le cosiddette misure cautelari ci sono la detenzione in carcere, gli arresti domiciliari e vari divieti di allontanarsi da un certo posto o di avvicinarsi a un altro. La legge non impedisce di pubblicare la notizia, cioè il fatto che a una persona indagata sia stata imposta una misura cautelare, né di riassumere il contenuto di quel documento e le informazioni che descrive. Vieta soltanto di pubblicare integralmente le ordinanze o di citare testualmente dei passaggi, comprese le valutazioni dei giudici o testi di intercettazioni, particolarmente attraenti per i giornali e per una parte dei loro lettori. Lo stesso divieto c’era già prima del 2017, quando fu modificata la legge per consentirne la pubblicazione. Alcuni esponenti della maggioranza avevano proposto di multare i giornalisti che violano il divieto con sanzioni fino a 50mila euro, alla fine le multe saranno quelle previste dal reato di “pubblicazione arbitraria di atti”, da 51 a 258 euro. Costa ha presentato la proposta sulla base della direttiva europea 343 del 2016, che impone di non presentare gli imputati come colpevoli «fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata», a maggior ragione prima di un eventuale rinvio a giudizio, cioè prima che cominci un processo per stabilirne l’eventuale colpevolezza. È lo stesso principio che seguono le leggi e le norme di molti paesi europei, che da anni o in alcuni casi addirittura decenni tutelano la presunzione di innocenza delle persone indagate. Nel Regno Unito ci sono diverse leggi che regolano la pubblicazione degli atti giudiziari, tutte basate sul criterio generale per cui lo svolgimento di un processo regolare è prevalente sul principio della libertà di stampa. Le forze dell’ordine non possono rivelare nomi di persone accusate durante la fase delle indagini, mentre nei processi i giudici possono applicare – e li applicano spesso – divieti per tutelare la privacy e la presunzione di innocenza oltre che il corretto svolgimento del processo stesso. Le limitazioni al diritto di cronaca sono generalmente ritenute di buon senso, condivise dai giornalisti e implicano sanzioni molto pesanti (compreso il carcere per i giornalisti), ragione per cui vengono quasi sempre rispettate: i giornali possono tuttavia contestarle e presentare dei ricorsi. Anche in Francia sono previste pesanti sanzioni per chi pubblica integralmente atti di indagine. Oltre alla sanzione per la pubblicazione – 3.750 euro – i giornalisti possono essere accusati di ricettazione rischiando 5 anni di carcere e 370mila euro di multa. Il segreto istruttorio è regolato dall’articolo 11 del codice di procedura penale che impone la segretezza a tutte le persone coinvolte nel procedimento giudiziario. Rispetto all’Italia, dove le conseguenze per i giornalisti sono tutto sommato lievi e spesso le procure non iniziano nemmeno le indagini, negli ultimi anni in Francia i giudici hanno condannato alcuni giornalisti per ricettazione: non sono stati messi in carcere, ma hanno dovuto pagare multe molto alte. In seguito ai ricorsi fatte da giornalisti e giornali contro le condanne, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha avuto orientamenti diversi: quando i giudici non hanno ravvisato un interesse generale, per esempio per casi di cronaca nera, le condanne sono state confermate. Quando la pubblicazione riguardava documenti di processi contro politici noti, i giudici della CEDU hanno accolto i ricorsi e annullato le condanne per via dell’interesse generale delle inchieste.
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