Il Myanmar torna alle urne per la prima volta dal golpe del 2021
Il Myanmar dà inizio ad un controverso processo elettorale organizzato dal Consiglio di amministrazione dello Stato, la giunta militare birmana, che lo ha promosso come un passaggio cruciale verso il ritorno del Paese all’ordine costituzionale. Si voterà per eleggere i rappresentanti elettivi nelle due camere del parlamento, ovvero l’Assemblea dell’Unione, sciolta dal colpo di stato del primo febbraio del 2021, che ha portato al potere la giunta guidata dal generale Min Aung Hlaing. Saranno le prime elezioni nazionali dalla consultazione del novembre 2020, vinta in modo schiacciante dalla Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi, il cui governo eletto venne deposto dalle forze armate pochi mesi più tardi. Il colpo di Stato riacuì le ostilità che vedono protagonisti da decenni i gruppi armati etnici attivi nel Paese, innescando un vero conflitto civile tra l’Esercito regolare e le forze che si identificano, almeno nominalmente, con l’opposizione pro democrazia e il suo Governo di unità nazionale in esilio. Le elezioni imminenti, a lungo promesse e più volte rinviate dalla giunta, che dopo il golpe proclamò uno stato di emergenza nazionale revocato soltanto lo scorso agosto, è presentata dai militari come un’opportunità di riconciliazione. Tuttavia, né la consigliera di Stato deposta, il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, né il suo partito, potranno partecipare alla consultazione, e il voto non si terrà nelle vaste aree periferiche del Paese controllate delle forze che si oppongono alla giunta. Il voto non si svolgerà in un’unica giornata né sull’intero territorio nazionale. Le autorità elettorali hanno previsto tre tornate: il 28 dicembre, l’11 gennaio e il 25 gennaio 2026. Le elezioni interesseranno solo una parte dei 330 comuni del Paese: la prima fase coinvolgerà 102 comuni, la seconda altri 100 e la terza fino a un massimo di 72. In almeno 56 municipalità fuori dal controllo del governo militare il voto è già stato ufficialmente annullato, e ulteriori cancellazioni motivate da ragioni di accesso o sicurezza sono probabili con l’avvicinarsi delle date del voto. La normativa approvata dal governo militare consente tuttavia di convalidare l’esito dell’elezione in un collegio anche in presenza di un singolo seggio attivo, persino se situato all’interno di una base militare. Di fatto, a causa delle ostilità, del clima di insicurezza e dei limiti posti dalla giunta alla rappresentanza politica, una quota molto ampia dell’elettorato non potrà votare, anche qualora lo volesse. Dal punto di vista tecnico, il sistema elettorale sarà per la prima volta misto, e particolarmente complesso. Accanto ai collegi uninominali con sistema maggioritario semplice, già in uso in passato, sono stati introdotti collegi plurinominali con rappresentanza proporzionale. La combinazione dei due sistemi, applicata in modo differenziato ai vari livelli istituzionali, rende il risultato poco trasparente e alimenta timori di manipolazione. Le elezioni riguarderanno tre livelli legislativi: la Camera delle nazionalità (camera alta), con 168 seggi di cui metà assegnati con sistema proporzionale; la Camera dei rappresentanti (camera bassa), con 330 seggi interamente assegnati tramite un sistema maggioritario; e le assemblee delle 14 regioni e Stati, i cui seggi verranno assegnati tramite una commistione di entrambi i sistemi. La Costituzione in vigore dal 2008 riserva il 25 per cento dei seggi in ogni assemblea a membri delle forze armate, e poiché numerosi seggi elettivi resteranno vacanti a causa delle cancellazioni, dopo le elezioni il peso effettivo dei militari sarà ancora superiore. Nei mesi scorsi le elezioni organizzate dalla giunta birmana sono state oggetto di dure critiche da parte della comunità internazionale a causa della loro scarsa rappresentatività. Il vista delle consultazioni, le autorità elettorali birmane hanno registrato 57 partiti, ma nessuno rappresenta il vasto consenso pro democrazia emerso nelle elezioni del 2015 e del 2020. Solo sei partiti presentano candidati a livello nazionale. Tra questi spicca il Partito dell’unione, della solidarietà e dello sviluppo (Usdp), legato alle forze armate, che schiera oltre mille candidati ed è già certo di conquistare almeno 28 seggi alla Camera bassa in collegi dove si presenta senza avversari. La Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, che nel 2020 aveva ottenuto circa l’82 per cento dei seggi elettivi, e che dopo il golpe ha visto i suoi vertici e principali esponenti arrestati o costretti all’esilio, ha rifiutato di registrarsi, giudicando l’elezione illegittima. La commissione elettorale ha quindi ordinato lo scioglimento del partito, così come quello di quasi tutte le altre formazioni che avevano ottenuto risultati significativi nelle precedenti consultazioni. I principali leader della Lega restano detenuti e isolati dal mondo esterno: tra questi anche Aung San Suu Kyi, condannata a 27 anni di reclusione dopo il golpe, e di cui si ignorano le condizioni di salute, come recentemente denunciato dal figlio, Kim Aris. Le autorità elettorali non hanno risparmiato nemmeno forze politiche considerate collaborative nei confronti del governo militare: lo scorso settembre è stato sciolto il Partito delle forze democratiche nazionali, accusato di presunte irregolarità organizzative, mentre il mese successivo la leader del Partito dei pionieri del popolo, la nota politica e imprenditrice Thet Thet Khaing, è stata esclusa dalla candidatura per presunti debiti nei confronti dello Stato. Il processo elettorale si inserisce in un clima di violenza crescente. Da un lato, il governo militare ha intensificato la repressione contro ogni forma di dissenso: una legge approvata a luglio ha inasprito il controllo sulla libertà di espressione in relazione alle elezioni: la legge prevede pene da tre a dieci anni di carcere e multe per chi parla, organizza, incita, protesta o diffonde materiali per ostacolare le elezioni. Altri reati possono comportare pene fino alla condanna a morte. Secondo organizzazioni locali per i diritti umani, almeno 86 persone sono già state arrestate, mentre tribunali controllati dai militari hanno inflitto condanne durissime per atti simbolici di protesta. In alcuni casi, giovani artisti accusati di aver esposto manifesti contro il voto sono stati condannati a pene comprese tra 42 e 49 anni di carcere. Il ministro dell’interno, tenente generale Tun Tun Naung, ha riferito il 17 dicembre che ben 229 persone sono state incriminate sinora per presunte violazioni della legge elettorale. In aggiunta alla repressione politica, vaste aree del Paese restano teatro del conflitto tra le forze armate regolari e milizie etniche, che da decenni reclamano l’indipendenza o maggiore autonomia, e che dopo il 2021 si sono in parte coordinate con i movimenti anti-golpe. Le forze ribelli hanno respinto apertamente le elezioni, e alcuni gruppi hanno annunciato l’intenzione di sabotarle attivamente. Negli ultimi mesi si sono registrati rapimenti di candidati, omicidi e aggressioni contro funzionari di partito, incendi di abitazioni e attacchi contro sedi politiche e uffici elettorali. I seggi stessi rappresentano obiettivi vulnerabili: migliaia di scuole e piccoli edifici amministrativi saranno utilizzati come sedi di voto, spesso con personale composto da insegnanti costretti a partecipare in quanto dipendenti pubblici. Anche gli elettori potrebbero essere spinti a votare con la forza per aumentare l’apparenza di legittimità del processo, esponendosi però al rischio di rappresaglie da parte dei gruppi ribelli. Come evidenziato da alcuni analisti, il ritorno alle urne non rappresenta soltanto un tentativo di legittimazione da parte della giunta militare, ma anche un passaggio procedurale esplicitamente previsto dalla Costituzione del 2008 per uscire formalmente dallo stato di emergenza, e tornare ad un assetto costituzionale che garantisca alle forze armate un ruolo centrale e permanente. La Carta prevede una condivisione del potere tra civili eletti e militari, dando per scontato che solo partiti sostenuti dalle forze armate possano governare. In questo senso, il colpo di Stato del 2021 ha interrotto una parentesi apertasi negli anni precedenti, quando consultazioni relativamente competitive avevano portato alle vittorie della Lega nazionale per la democrazia. Tramite l’attuale tornata elettorale, i vertici militari puntano a riavviare il sistema politico sulla base dei medesimi presupposti istituzionali, ma con un controllo più stretto sull’apparato civile. L’esito del voto, infatti, appare scontato: una netta vittoria del partito legato ai militari che manterranno uno stretto controllo sul Paese, con una facciata civile rappresentata dal partito Usdp. Il nuovo assetto dovrebbe entrare in funzione nell’aprile 2026, ma difficilmente attenuerà la crisi politica o il conflitto armato, e rischia anzi di irrigidire ulteriormente le divisioni. Persino all’interno dell’apparato militare potrebbero aprirsi nuove dinamiche di potere: i comandante in capo delle forze armate, generale Min Aung Hlaing, dovrà scegliere se assumere il ruolo di presidente, mantenere quello di capo delle forze armate o trovare una soluzione extra-costituzionale per conservare la doppia autorità. La riassegnazione dei poteri istituzionali, per quanto formale, potrebbe alimentare rivalità tra alti ufficiali e rafforzare figure politiche interne al partito filo-militare. Sul piano internazionale, la legittimità del voto è ampiamente contestata. Nessuna missione elettorale indipendente di rilievo parteciperà all’osservazione. Solo pochi Paesi, tra cui Cina (visitata dal leader della giunta birmana il mese scorso), Russia e Bielorussia, hanno annunciato un coinvolgimento limitato. Nelle ultime settimane sono giunti inattesi segnali di apertura anche da parte dell’India, che ha auspicato elezioni “libere, eque e inclusive”, ed ha persino espresso la disponibilità a inviare osservatori. L’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), di cui il Myanmar fa parte, e che per anni ha tentato senza successo di ricomporre la crisi birmana, mantiene una linea critica nei confronti della giunta e continua a escluderne i rappresentanti di alto livello dalle attività dell’organizzazione, chiedendo l’attuazione del cosiddetto Consenso in cinque punti del 2021, che prevede la fine della violenza nel Paese e l’avvio di un dialogo inclusivo con le forze pro democrazia. Persino la Thailandia, Paese vicino al Myanmar e tra i membri dell’Asean più propensi al dialogo con Naypyidaw, non ha nascosto le proprie critiche: il ministro degli Esteri thailandese, Sihasak Phuangketkeow, ha detto il mese scorso che le elezioni pianificate dalla giunta non saranno “né libere né credibili”, e ha chiesto il rilascio della consigliera di Stato deposta Aung San Suu Kyi. Phuangketkeow ha aggiunto però che anche in assenza di un riconoscimento internazionale, l’elezione potrebbe rappresentare un passo verso riforme future, citando il caso del 2010, quando un’elezione “imperfetta” portò alla presidenza di Thein Sein, al rilascio della leader democratica birmana, nonché alla vittoria della Lega nazionale per la democrazia alla tornata elettorale successiva. Il conflitto civile in atto in Myanmar, in cui combattono i militari agli ordini della giunta, gli oppositori democratici e le milizie etniche armate, ha provocato migliaia di morti: oltre 82 mila per l’organizzazione non governativa statunitense Armed Conflict Location and Event Data (Acled), ma le stime variano a seconda delle fonti e il bilancio è ancora provvisorio. Il forte terremoto del 28 marzo ha aggravato ulteriormente la situazione. L’ultimo rapporto dell’’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), pubblicato a novembre, parla di 3,6 milioni di sfollati interni e di 19,9 milioni di persone bisognose di assistenza. La situazione dei diritti umani è catastrofica. In questo contesto l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha recentemente ricordato tutte le criticità delle prossime elezioni, a cominciare dall’insicurezza: “Questo scrutinio controllato dai militari si svolgerà in un clima di minacce e violenza, mettendo a rischio la vita dei civili”. In secondo luogo, “l’esercito sta attivamente reprimendo la partecipazione. Molti importanti partiti politici sono esclusi e oltre 30 mila oppositori politici dell’esercito, tra cui membri del governo democraticamente eletto e rappresentanti politici, sono stati arrestati dal 2021”. Inoltre, “la discriminazione incombe pesantemente nel processo elettorale, con rohingya, tamil, gurkha e cinesi, tra gli altri, esclusi dal voto”. Infine, “l’esercito non ha il controllo su vaste aree del Paese e non sarà in grado di coprire l’intero territorio nazionale in modo significativo e rappresentativo. Circa 56 comuni, in cui la legge marziale è ancora in vigore, saranno esclusi. Circa 31 comuni, al primo turno, non avranno diritto al voto a causa dell’assenza di candidati”. A ottobre il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, Tom Andrews, alla vigilia del 47mo summit dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), ha esortato il gruppo regionale a non riconoscere elezioni illegittime, volte a consolidare il regime militare e ad allentare la pressione internazionale, e ad astenersi da qualsiasi azione che possa legittimare la giunta, incluso l’invio di osservatori a monitorare le elezioni. Nel summit i leader dell’Asean hanno riconosciuto la “mancanza di progressi sostanziali” e fatto presente che “la cessazione della violenza e un dialogo politico inclusivo devono precedere le elezioni”. È stato confermato che il Consenso in cinque punti è il documento di riferimento dell’Asean sulla crisi del Myanmar e che il Paese, sebbene “parte integrante” dell’organizzazione, continuerà ad avere una “rappresentanza non politica” nei vertici e nelle riunioni dei ministri degli Esteri “fino a quando non ci saranno progressi significativi” nella sua attuazione.
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