La nuova amministrazione Trump al banco di prova delle Americhe
Lo scorso 26 novembre Donald Trump in un post su Truth Social ha minacciato di imporre un aumento del 25% dei dazi su tutte le importazioni dal Messico e dal Canada, Paesi accusati di “non fare la propria parte” nella lotta all’immigrazione illegale e al traffico di droga diretto verso gli Stati Uniti. Ma già due giorni dopo ha definito “eccellente” e “molto produttiva” una sua conversazione telefonica con la presidente messicana Claudia Sheinbaum, riferendo che questa avrebbe dato la sua piena disponibilità a collaborare per “sigillare” il confine del Rio Grande (la versione della controparte messicana è naturalmente assai diversa). Due annunci tra i tanti, che si perderanno nel flusso della campagna elettorale permanente del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, e che tuttavia illustrano la peculiarità delle Americhe come palcoscenico ideale delle performance trumpiane e, in misura minore, delle sue politiche. Come ormai da molto tempo, non sarà l’emisfero occidentale l’area decisiva nello scacchiere globale in cui Washington, volente o nolente, continuerà ad agire da protagonista. Ma qui più che altrove si sovrappongono e rafforzano reciprocamente temi congeniali al disegno trumpiano. La circolazione (legale e non) di persone e di merci, l’integrazione di catene produttive fortemente transnazionali, e infine la differenza culturale e razziale che queste interazioni sembrano di volta in volta superare o riaffermare a seconda dei momenti e dei contesti fanno di quelle migliaia di chilometri di confine fisico lungo il Rio Grande, che è quasi un unicum per la geografia degli Stati Uniti, un topos ideale del nazionalismo à la Trump.
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