Mali: riscatti e blocco del carburante, si stringe il cappio jihadista attorno a Bamako
Si fa sempre più critica la situazione in Mali, teatro da anni di un’insurrezione jihadista che ora minaccia direttamente la capitale Bamako. Più che il confronto armato, tuttavia, al centro dell’azione jihadista sembra esserci un disegno di strangolamento economico volto a indebolire l’attuale regime di transizione, avviato dopo il colpo di Stato del 2021, e che prevede il blocco dei servizi essenziali per i cittadini, oltre che un’accurata strategia che fa leva sul sequestro di cittadini stranieri, in cambio di soldi e armi. Per settimane il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim), affiliato ad Al Qaeda, ha bloccato l’afflusso di cisterne di carburante a Kayes e Nioro, due località al confine con il Senegal. Una mossa messa in atto in risposta alla decisione della giunta militare di tagliare i rifornimenti nelle aree più remote del Paese, dove trovano rifugio i jihadisti stessi. Il blocco è stato imposto inizialmente lungo la fascia che dal Mali prosegue lungo il confine con Mauritania e Senegal fino a Sikasso, località a sud del Paese, vicino al confine con Guinea e Costa d’Avorio. All’origine dell’embargo jihadista c’è la convinzione che alcune aziende collaborino con le Forze armate maliane (Fama) del generale Assimi Goita, il leader della giunta militare che regge il Paese dal doppio colpo di Stato del 2020 e 2021, a danno dei jihadisti. Come diretta conseguenza, a Bamako molte stazioni di servizio hanno chiuso e code interminabili si sono formate per rifornirsi in quelle ancora operative. Le poche stazioni di servizio della capitale che sono rimaste aperte sono state prese d’assalto da folle di persone, mentre per le strade non è raro vedere auto rimaste a secco o persone che spingono le loro motociclette a mano. La carenza di carburante ha obbligato a ridurre i trasporti pubblici fino al 70 per cento e ha reso complicato raggiungere il posto di lavoro. Il ministero dell’Istruzione ha di recente annunciato la chiusura delle scuole per due settimane. I prezzi del carburante sono aumentati, prima nei quartieri periferici, quindi in città, costringendo il ministro della Sicurezza, generale Daoud Aly Mohammedine, a placare gli animi dei cittadini, annunciando “misure forti” per garantire l’approvvigionamento del Paese. Una situazione d’emergenza che la giunta militare ha provato a colmare con la fornitura di scorte da parte della Russia, principale alleato della giunta golpista di Bamako, che ha promesso la consegna e tra le 160 mila e le 200 mila tonnellate di carburante al mese. Un annuncio che, tuttavia, non è servito ad arginare una crisi che si è fatta di giorno in giorno più grave, portando diverse ambasciate occidentali – tra cui l’Italia – ad invitare i connazionali a lasciare il Paese. Un leggero miglioramento della situazione si è avuto con la graduale ripresa delle forniture di carburante nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, tuttavia la crisi resta acuta. Il blocco del carburante, peraltro, è solo una delle strategie messe in atto dai jihadisti nel tentativo d’indebolire e far collassare le strutture statali del Paese. Come scrive l’emittente “Rfi”, infatti, la scorsa settimana il Jnim ha rilasciato due ostaggi emiratini e un iraniano che erano stati sequestrati, in cambio di un riscatto compreso tra i 50 e i 70 milioni di euro e di equipaggiamento militare. I tre uomini erano stati catturati lo scorso 23 settembre in un aeroporto privato nel comune di Sanankoroba, a circa 30 chilometri da Bamako. I negoziati per il loro rilascio sono stati rapidamente avviati attraverso diversi intermediari, sotto l’egida dei servizi segreti maliani e il loro rilascio è finalmente avvenuto lo scorso 29 ottobre. Secondo le informazioni rivelate dal giornalista Wassim Nasr, che collabora con “France 24”, in cambio del loro rilascio le autorità maliane hanno consegnato ai jihadisti diverse tonnellate di equipaggiamento militare, tra cui veicoli e armi. Secondo diverse fonti, si sarebbe anche verificato uno scambio di prigionieri. Lo Jnim ha rivendicato inoltre il sequestro di due ostaggi egiziani sospettati di collaborare con la giunta al potere a Bamako, per il cui rilascio ha chiesto un riscatto di 5 milioni di dollari, mentre ha negato il sequestro di un pilota statunitense. Dal luglio scorso, inoltre, diversi attacchi hanno preso di mira siti industriali e minerari, in particolare nella regione di Kayes, che rappresenta l’80 per cento della produzione aurifera del Mali, la sua principale fonte di ricchezza. Tra gli esempi figurano la Diamond Cement Factory, dove sono stati rapiti tre ingegneri indiani, e diverse miniere nella regione di Kayes, dove sono stati rapiti una decina di dipendenti cinesi. Anche la miniera di litio di Bougouni, gestita dalla società britannica Kodal Minerals, è stata oggetto di diversi raid. Una strategia, quella jihadista, che rischia di contagiare l’intera area del Sahel, da tempo finita nell’orbita russa dopo la serie di colpi di Stato che – oltre al Mali – hanno interessato anche i vicini Burkina Faso e Niger. A lanciare l’allarme, in tal senso, è stato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, reduce da una missione di tre giorni che lo ha visto impegnato insieme al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, in Mauritania, Senegal e Niger. “Il pericolo in Mali è duplice – ha osserva il ministro in un’intervista al “Mattino” – perché i jihadisti e fautori dello Stato islamico puntano a prendere il controllo del governo. Per giorni hanno bloccato l’afflusso di cisterne di carburanti dai porti sull’Atlantico verso questo Paese che non ha sbocchi al mare. C’è un clima di tensione e preoccupazione per le comunità estere che si trovano a Bamako. Ricordo – continua il ministro – che nel 2024 un’intera famiglia italiana è stata liberata soltanto dopo molti sforzi: Rocco Langone, la moglie Maria Donata Caivano e il figlio Giovanni erano stati sequestrati il 19 maggio 2022 nella loro abitazione alla periferia della città di Koutiala, a sud-est della capitale del Mali, Bamako, dove vivevano da diversi anni. Attualmente i nostri connazionali, circa 60 persone, in gran parte hanno deciso di lasciare il Paese. Il rischio secondario è che dal Mali la minaccia jihadista possa rafforzarsi anche negli altri Paesi del Sahel, ed è proprio quello che con i nostri sforzi diplomatici a livello internazionale stiamo cercando di evitare”. Il rischio, ora, è che la crisi in Mali si allarghi ai vicini Niger e Burkina Faso. Secondo quanto riferito dal centro di ricerca e monitoraggio sul jihadismo Menastream, i vertici del Jnim stanno infatti invitando – tramite i loro media affiliati – i suoi sostenitori in Niger e Burkina Faso ad aderire al loro jihad, mentre nel vicino Mali si rafforza l’azione islamista contro la giunta al potere a Bamako. Viene segnalato, in particolare, un appello rivolto dal comandante dello Jnim, Cheikh al Bani, ai leader musulmani in Niger e quello di due riferimenti del gruppo per le comunità etniche Gourmantché e Kurumba, che con messaggi nelle rispettive lingue hanno esortato i combattenti delle regioni orientali e settentrionali del Burkina Faso ad unirsi ai miliziani. L’insurrezione jihadista in Mali è una crisi complessa e prolungata iniziata nel 2012, quando un gruppo di ribelli tuareg riuniti nel Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) – si sollevò contro il governo centrale chiedendo l’indipendenza dell’Azawad, la regione desertica settentrionale. Ben presto, tuttavia, l’insurrezione fu guidata da gruppi jihadisti affiliati ad Al Qaeda, che riuscirono a occupare le principali città del nord: Timbuctù, Gao e Kidal. Dopo gli accordi di pace Algeri, siglati nel 2015 dal governo e i gruppi ribelli tuareg, la crisi ha assunto una dimensione prevalentemente etnica e comunitaria, che ha finito per alimentare un ciclo di vendette, massacri e sfollamenti di massa. Dopo i due colpi di Stato del 2020 e del 2021, che hanno portato al potere una giunta guidata da Assimi Goita, il nuovo governo militare ha interrotto la cooperazione militare con la Francia e ha espulso l’operazione a guida francese Barkhane e la Missione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma), sostituendole con l’aiuto del gruppo mercenario russo ex Wagner (oggi Africa Corps). In seguito ai colpi di Stato, la coalizione tuareg ha sospeso, e poi abbandonato, gli accordi di Algeri del 2015, facendo tornare il Paese a una vera e propria guerra aperta tra le ex forze ribelli e il governo militare di Bamako. Il risultato è stato un riavvicinamento tra i ribelli tuareg – nel frattempo riorganizzatisi sotto il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma) – e i jihadisti, che ha reso la situazione ancor più esplosiva. Le forze maliane, assistite dai russi, hanno lanciato una serie operazioni militari contro i ribelli tuareg, tra cui l’occupazione delle basi Onu (molte delle quali si trovavano in territori controllati dalla Cama) e, soprattutto, la riconquista della città di Kidal, nel nord del Paese, che per anni era rimasta sotto il controllo della coalizione tuareg. La violenza si è estesa ai Paesi vicini, in particolare Burkina Faso e Niger, creando una crisi regionale che rischia ora di sfuggire di mano.
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