La battaglia dei Masai per la terra

Ott 24, 2025 - 00:18
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La battaglia dei Masai per la terra

«Ci stanno portando via tutto: la nostra terra, la nostra storia, il nostro futuro», denuncia Ole Nadoy, leader della comunità masai di Loliondo. Parole che riecheggiano come un grido di disperazione e resistenza. Nel giugno 2022, oltre 96.000 Masai sono stati sgomberati con la forza dalle loro terre ancestrali per fare spazio alla riserva di caccia Pololeti. Lo scorso ottobre, la Corte suprema di Dodoma ha respinto la richiesta di rientro nelle loro terre, un verdetto che, secondo l’Oakland Institute, rappresenta un pericoloso precedente per i diritti dei popoli indigeni in Tanzania e oltre. Survival International denuncia che i Masai non sono stati consultati né risarciti, benché le loro terre fossero legalmente riconosciute. «Le comunità colpite vivevano in villaggi regolarmente registrati secondo il regime fondiario tanzaniano, eppure la Corte ha ritenuto che il loro diritto alla terra fosse secondario rispetto alle esigenze economiche del Paese», riferisce l’organizzazione che difende i popoli indigeni. E ancora: «La decisione rischia di creare un pericoloso precedente, legittimando sfratti forzati di comunità native a favore di progetti governativi legati al turismo e alla conservazione ambientale». «I motivi su cui si fonda la sentenza», sostengono gli attivisti, «fanno fortemente dubitare dell’indipendenza del potere giudiziario in questo momento storico della Tanzania, Paese ormai ben avviato a diventare un regime autocratico dove la legge non è più uguale per tutti e gli oppositori vengono perseguitati». Vittime della repressione sarebbero anche «i leader masai e quelli delle organizzazioni della società civile che hanno difeso i loro diritti, imprigionati per mesi con accuse pretestuose». Il tribunale ha motivato la decisione sostenendo che la riserva è necessaria per la conservazione della fauna selvatica (“le riserve di caccia tutelano l’ambiente e l’equilibrio dell’ecosistema – hanno spiegato i giudici – permettendo l’abbattimento degli animali vecchi o in eccesso”), principale fonte di valuta estera del Paese. Tuttavia, la sentenza contraddice un precedente verdetto della stessa Corte suprema del 2023, che aveva dichiarato illegale la creazione della riserva Pololeti proprio perché i Masai non erano stati coinvolti. Gli attivisti parlano di un grave segnale di deriva autoritaria: «Non solo la giustizia sembra piegata agli interessi economici del governo, ma chi difende i diritti delle comunità indigene viene perseguitato. Leader masai e attivisti della società civile sono stati imprigionati con accuse pretestuose, mentre le forze di sicurezza hanno represso con la violenza le proteste locali». «Il dietrofront evidenzia il peso politico della vicenda e la volontà del governo di piegare le decisioni giudiziarie ai propri interessi economici», chiosano i rappresentanti delle comunità pastorali di Loliondo. La battaglia legale – di cui si annunciano nuovi capitoli – è solo l’ultimo risvolto di un’annosa contesa che da molti anni contrappone le autorità di Dodoma ai Masai. Questi ultimi, uno dei gruppi indigeni più noti dell’Africa orientale, vivono nel nord della Tanzania, e nei territori confinanti del Kenya, e sono tradizionalmente pastori nomadi. Il loro stile di vita dipende fortemente dalla possibilità di accedere a vaste aree di pascolo per il bestiame, una risorsa sempre più minacciata dalla pressione dello sviluppo economico e turistico. Nel corso del tempo, il governo tanzaniano ha progressivamente limitato l’accesso dei Masai alle loro terre, sostenendo che le aree in questione sono necessarie per la conservazione della fauna selvatica o lo sviluppo turistico. Uno degli epicentri del conflitto è proprio la regione di Loliondo, al confine con il Parco Nazionale del Serengeti. Il governo tanzaniano ha a lungo cercato di trasformare questa zona in una riserva naturale. E ciò ha comportato lo sfratto forzato di numerose famiglie masai. La situazione ha raggiunto un punto critico quando il governo, nel 2022, ha inviato le forze di sicurezza per delimitare 1.500 chilometri quadrati come area protetta, scatenando proteste e scontri con le comunità locali. Decine di attivisti sono stati arrestati, alcuni sono stati costretti all’esilio e molte comunità hanno subito violenze durante gli sgomberi forzati. Le immagini degli scontri hanno suscitato reazioni internazionali, con organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch a denunciare presunte violazioni dei diritti umani, chiedendo alla Tanzania di rispettare gli accordi internazionali sulla tutela dei popoli indigeni. Il governo giustifica gli sfratti con la necessità di tutelare l’ecosistema, ma i Masai e le organizzazioni per i diritti umani accusano le autorità di usare la conservazione come pretesto per favorire il turismo di lusso e la caccia sportiva. Secondo fonti di stampa, alcune delle terre sottratte sarebbero già state concesse a compagnie straniere legate agli Emirati Arabi, che organizzano safari esclusivi e battute di caccia per clienti facoltosi. La vicenda ha suscitato indignazione internazionale: l’Unione Europea ha condannato duramente l’accaduto, arrivando a sospendere finanziamenti destinati alla conservazione ambientale in Tanzania, mentre la Banca mondiale ha interrotto l’erogazione di fondi per lo sviluppo turistico a causa delle violazioni dei diritti umani. Le conseguenze del caso di Loliondo si fanno sentire anche oltre confine. Il Kenya ha accolto un numero crescente di Masai in fuga, privati dei loro mezzi di sussistenza. Nel gennaio scorso, la giustizia kenyota ha emesso una sentenza storica, dichiarando illegali le riserve di conservazione create dal governo in collaborazione con il Northern Rangelands Trust (Nrt), un’organizzazione che gestisce milioni di ettari vendendo crediti di carbonio a multinazionali come Meta, Netflix e British Airways. Il tribunale ha appurato che quelle aree sono state istituite senza consultare le comunità locali, in maggioranza di etnia borana, samburu e rendille, alimentando il sospetto che dietro la conservazione si nascondano interessi economici globali a discapito dei popoli indigeni. La missione di Nrt sarebbe, in teoria, quella di istituire riserve comunitarie resilienti, trasformare vite e garantire la pace e la conservazione delle risorse naturali. A finire sotto accusa è un progetto del valore potenziale di svariati milioni di dollari (l’importo esatto non è noto poiché l’organizzazione non pubblica bilanci finanziari), da tempo criticato dagli attivisti indigeni perché sarebbe stato istituito a danno delle popolazioni locali. La sentenza, in particolare, riguarda un caso intentato da 165 membri delle comunità presenti in quei territori e sancisce che le riserve sono state istituite incostituzionalmente, senza base giuridica. La Corte ha inoltre ordinato che i guardaparco dell’Nrt, armati pesantemente e accusati dai popoli indigeni della zona, lascino quelle riserve. «La sentenza è anche l’ultima di una serie di stoccate alla credibilità di Verra, il principale organismo utilizzato per verificare e validare i progetti di crediti di carbonio», fa sapere Survival International. «Purtroppo questo fenomeno è lungi dall’essere un problema isolato», fa presente Caroline Pearce, direttrice generale dell’organizzazione. «Troppi programmi di compensazione delle emissioni di carbonio si basano sullo stesso modello obsoleto della “conservazione fortezza” e sostengono di “proteggere” la terra mentre calpestano i diritti dei suoi proprietari indigeni e realizzano ingenti profitti strada facendo». Gli interessi stranieri nella gestione di quei territori appaiono evidenti. Secondo l’Oakland Institute, dietro la politica tanzaniana sulla conservazione e il turismo si nasconderebbero ingerenze di rilievo, in particolare statunitensi. Un rapporto pubblicato ad aprile da ricercatori californiani (intitolato Pulling Back the Curtain: How the US Drives Tanzania’s War on the Indigenous) ha messo in luce come Washington abbia esercitato un ruolo determinante nell’influenzare le strategie di gestione del territorio in Tanzania, sostenendo progetti finanziati da Usaid a scapito delle comunità locali. E malgrado l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale sia stata praticamente chiusa nei mesi scorsi da Donald Trump, in pochi si illudono che la nuova amministrazione americana imprimerà o favorirà un cambio di rotta nelle politiche ambientali… Mentre il governo di Dodoma prosegue con le politiche di esproprio, i Masai si trovano a combattere una battaglia sempre più difficile per la salvaguardia dei propri diritti e per il controllo delle loro terre ancestrali.

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Redazione Giornalista iscritto all’elenco dei “Professionisti” dal 2003. Iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Liguria dal 1991 come pubblicista fino al 2003 quando ha superato l’esame a Roma per passare ai professionisti. Il suo primo pezzo, da album dei ricordi, l’aveva scritto sul ‘Corriere Mercantile’ (con l’edizione La Gazzetta del Lunedì) nel novembre del 1988. Fondato nel 1824, fu una delle più longeve testate italiane essendo rimasto in attività fino al luglio del 2015. Ha collaborato per 16 anni con l’agenzia Ansa, ma anche con Agi, Adnkronos, è stato corrispondente della Voce della Russia di Radio Mosca, quindi ha lavorato con La Repubblica, La Padania, Il Giornale, Il Secolo XIX, La Prealpina, La Stampa e per diverse emittenti radiofoniche come Radio Riviera 3, Radio Liguria International, Radio Babboleo, Lattemiele, Onda Ligure. E' direttore di Radiocom.tv